1.
Avevo dato disposizioni precise. Le avevo impartite, le avevo ripetute, ma forse la volontà individuale non conta nulla e dietro la mia vita c’è uno spartito segreto che posso soltanto eseguire con maggiore o minore perizia, senza poter orientare le scelte di un arbitrio superiore. L’esistenza ridotta a esercizio di interpretazione di un destino.
Ricordo ancora il volto mortificato del sovrintendente che per tutto il pomeriggio mi ha inseguito lungo i corridoi, pronto ad assecondare qualunque mia richiesta. Tutte tranne l’unica che io abbia davvero formulato.
«Maestro…», mi ha risposto. «Non serve che lo dica!»
Avrebbe voluto mostrarsi offeso ma gliene mancava il coraggio. Aveva scelto allora di esibire una profonda ferita interiore. Guardava il pavimento, incapace di sollevare lo sguardo oltre le punte delle mie scarpe. Me lo ricordo bene il lamento della sua dignità straziata: è rimasto immobile senza dire più nulla, sperando forse che mi pentissi di quell’attentato alla sua professionalità.
«Non faccia. Entrare. Nessuno.»
L’ho ripetuto scandendo le parole in tempo di valzer.
Aveva ragione, non c’era bisogno di precisarlo. Tutti sanno quanto io detesti essere avvicinato. Mi riferiscono che D’Hermanville, pensando di strappare una risata alla mie spalle, avrebbe pronunciato la seguente frase, in presenza di un assembramento di orchestrali: «Mi ricorda Benedetti Michelangeli, ma solo per il carattere.»
Ci sono migliaia di pianisti più cordiali di me. Sono quasi tutti dattilografi del pentagramma il cui mestiere consiste unicamente nel leggere un segno sulla carta e schiacciare il tasto corrispondente sul pianoforte, ma questo è il prezzo che si paga quando si trascura il talento in favore del carattere.
L’ironia, la tragedia, consistono nel fatto che gli aneddoti sulla mia presunta misantropia non fanno altro che attrarre nuovi scocciatori. Potrei accettare queste crudeltà sussurrate alle mie spalle se almeno servissero a tenermeli lontani, a rompere l’assedio delle loro attenzioni, ad annientare il rumore delle loro voci e dei loro strumenti maltrattati a pochi centimetri dalle mie orecchie. Non è così, purtroppo. Non è stato così quella sera.
La consuetudine mi obbligava a concedere almeno un encore. Avevo eseguito la bagatella più corta e insignificante che riuscissi a ricordarmi. Sono rientrato in camerino molto tempo prima che finissero di scrosciare gli applausi. Lungo il corridoio ho incrociato Zimmerman. Ha finto di unirsi al tributo avvicinando platealmente le mani ma per comprendere il suo reale stato d’animo bisognava osservargli la mandibola irrigidita dal rancore. La mia bagatella aveva superato il suo Mozart. L’ho visto succedere a direttori molto più capaci di lui: non sopportano che l’encore venga acclamato più del concerto. La gente paga per il programma ma il giorno dopo parla soltanto di me, di quei pochi minuti di libertà che mi è concesso trascorrere davanti all’orchestra ammutolita. Chiedete a Karajan, Jochum, Harnoncourt, ma chiedete anche a D’Hermanville se volete togliergli la voglia di scherzare. Budapest, febbraio 1987: mi è bastato un minuto e mezzo di Scarlatti per oscurare il primo concerto di Brahms.
Nessuno pensi tuttavia che io abbia mai ricavato una qualche soddisfazione da questi trionfi. Quando mi alzo dallo sgabello non mi importa di nulla, vorrei soltanto poter ritardare all’infinito il momento del mio ritorno al mondo. Chiedo solo qualche misura di silenzio dopo aver sopportato per un’ora il rumore di un’orchestra di sessanta elementi che sfoga gli strumenti contro al mio orecchio sinistro, mentre io cerco di eseguire dignitosamente la parte rilevante di un concerto per pianoforte.
Un giorno Todorov, stizzito per la mia richiesta di abbassare i toni di un fortissimo, mi ha cacciato dal palco lanciandomi l’insulto più prezioso che abbia mai ricevuto.
«Sonoclasta!», mi ha urlato.
Aveva ragione, in qualche modo. Non posso dire di detestare la musica ma sono una specie di adoratore pagano del silenzio. Per questo prima e dopo un’esibizione esigo di rimanere solo dietro a una porta chiusa: per allontanarmi dalla musica, per avvolgere nel silenzio le mie interpretazioni. Dopo Mozart, dopo Beethoven, dopo Schumann non posso tornare al brusio, alla chiacchiera, ai tacchi delle scarpe contro i pavimenti, al cigolare dei cardini, alle esplosioni che alimentano i motori delle auto. La musica ha bisogno di svettare sul repertorio infinito di tutti gli altri rumori del mondo; è terribile a dirsi dopo quello che mi è successo, ma questo guscio di silenzio è come il vuoto che circonda una montagna. Non esiste altitudine senza isolamento.
Il silenzio mi è sacro, eppure quella sera il mio breve rito è stato vergognosamente profanato. Nonostante le raccomandazioni, le suppliche, le minacce, ho sentito bussare per tre volte alla mia porta.